La sera del 26 febbraio una folla silenziosa è in fila composta sul Piazzale del Campidoglio. Scorre lentamente sotto l'austera statua del Marco Aurelio a cavallo per poi entrare nell'Aula Consiliare dove è esposta la salma di Alberto Sordi.
Sono persone di tutti i ceti, di tutte le età: poveri e ricchi, giovani ed anziani, romani e non romani. Quel luogo, ricco di memorie latine, imperiali crea una strana impressione: sembra di assistere all'omaggio che il popolo rende al suo Cesare. Un imperatore buono, dal faccione un po' pavido e un po' strafottente le cui gesta sono impresse in chilometri e chilometri di pellicola.
Ma per comprendere la depressione profonda in cui è caduta gran parte degli italiani per la sua scomparsa non c'è bisogno di un attento studio psicologico sui comportamenti di massa (come ha sottolineato più di un intellettuale). Il motivo è tutt'altro che complesso: Alberto Sordi ha rappresentato un'efficacissima 'maschera della Commedia dell'Arte'. Una 'maschera' ben più vicina a noi dei vari Pulcinella, Pantalone, Arlecchino. Perché se queste restano pur sempre delle 'astrazioni' delle varie anime di questa nostra cultura, Alberto Sordi era noi. Noi con le nostre insicurezze, pavidità, infantili strafottenze e cinismi lavativi. Il viso di Sordi era una maschera naturale, facilissima da leggere in tutte queste sfumature caratteriali. Ed aveva un grande pregio: era buffa, faceva ridere. Era terribilmente vera, umana.
Il fatto che la 'maschera' di Sordi abbia scandito circa mezzo secolo della storia di questo Paese, dal dopo guerra, alla ricostruzione, dalla ripresa economica al 'boom', per poi affrontare i temi e i problemi di un società che si ritrova in un ribaltamento dei suoi valori culturali, etici e politici, ce lo rendono testimone di cinquant'anni di storia. Cinquant'anni di osservazioni di un comico su una realtà, un costume che muta rapidamente. In poche parole, molti si identificavano in lui e lui in gran parte di noi.
Quand'ero bambino sentivo molto parlare di lui in casa, dei suoi film, delle sue battute, del suo modo di vivere. Si, perché Sordi (quanto è strano il destino….) viveva di fronte alla finestra della mia camera da letto. Tutti e due ci affacciavamo su una stradina del Rione Regola (vicino Campo de Fiori) che si chiama Via delle Zoccolette. Se è vero che ad ogni nome è legato un destino, vivere in Via delle Zoccolette non poteva che far presagire qualcosa di comico. Curioso di vedere il faccione del 'mitico' Sordi, nominato e celebrato continuamente, fui portato ad escogitare uno stratagemma per farmelo finalmente apparire. Presi a bersagliare la sua finestra (a sei metri di distanza dalla mia) con sassetti presi dai vasi dei fiori, fiducioso che prima o poi si sarebbe fatto vedere. Il risultato fu disastroso: ad apparire non fu lui ma il faccione della sorella Aurelia che con un vocione gridò: 'A regazzì, se nùn te ne vai te gonfio!'. Rimasi fulminato da quelle parole e scappai di corsa dentro casa. Convinto ormai che Alberto Sordi ben difficilmente si sarebbe fatto vedere per colpa di 'quel ragazzino rompiscatole', mi misi l'anima in pace. Senonché un pomeriggio lo vidi in carne ed ossa entrare, accompagnato dalla sorella Aurelia, in una macchina lussuosa che lo attendeva fuori del portone. Ebbi pochi secondi per imprimermi bene nella mente la statura ed il viso del più grande attore comico italiano. Ma….un'allucinazione mi colse all'improvviso: il faccione di Alberto era preciso identico a quello della sorella Aurelia. Se Aurelia si fosse vestita da uomo poteva benissimo essere il fratello e viceversa. Erano identici anche nella statura. Da qui il dilemma: ma non poteva essere stato lo stesso Sordi a dirmi 'te gonfio'? Questa fantasia me la portai dentro per buona parte dell'infanzia, forse 'orgoglioso' di aver avuto un contatto diretto col grande attore.
Ebbi un altro approccio con Sordi che me lo rese profondamente antipatico. Avrò avuto dieci anni e i miei genitori mi portarono a Saint Vincent per assistere alla consegna del Premio Cinematografico 'Le Grolle d'Oro'. Un premio prestigioso dato dai critici ai migliori cineasti dell'anno. Mio padre era nella giuria e Sordi era premiato. Lo incontrammo una mattina durante una passeggiata al laghetto di Gressoney. Sordi fu molto affettuoso con i miei genitori ma quando fu il momento di presentarmi a lui mi fissò a lungo e sentenziò con tono strafottente: 'Ma n'do vai vestito cosi' cò la piccozza in mano?'. In effetti mi ero fatto comprare da mia madre un completo valdostano con tanto di piccozza e cappelletto con la piumetta. Diventai rosso dalla vergogna e dalla timidezza ma lui continuò '…Ma che devi scalà?'. E facendomi una risata in faccia mi diede un pizzico sulla guancia così energico che mi lasciò un piccolo livido. Da quel giorno Sordi mi cominciò a far paura per quella risata diabolica e mi feci l'idea di un personaggio che odiava i ragazzini.
Mi disinteressai di Sordi per buona parte della mia adolescenza, fra l'altro lui aveva anche cambiato casa trasferendosi in una villa a tre piani alle Terme di Caracalla, villa che riuscì ad acquistare prima di Vittorio De Sica, procurando a quest'ultimo un immenso dolore. Ma era evidente che per andare ad abitare nel posto più significativo e pregiato di Roma ci doveva essere stato un grande balzo nella fama e nel guadagno.
Nel 1966, in piena esplosione 'beat', sui cartelloni stradali veniva pubblicizzato un film dal titolo 'Fumo di Londra' con la faccia di Alberto Sordi vestito da 'old english' con tanto di bombetta in testa. La curiosità di andare a vedere quel film, insieme ai miei compagni di liceo, non fu tanto dettata dalla presenza di Sordi quanto dal fatto che nel film c'era Londra, il sogno di tutti i nostri viaggi. In quegli anni Londra era la patria di una nuova èra, di una nuova musica, di una moda che ci ispirava continuamente per i suoi colori e per i suoi azzardi. Immaginavamo che tipo di storia potesse essere, col solito italiano bacchettone atterrato in una terra di 'matti'. Ma alla fine quello che ci intrigava era il vedere la 'London Beat' nel suo aspetto documentaristico. Sempre che Sordi ne fosse stato capace. E in effetti ci riuscì abbastanza bene, regalandoci non solo le immagini che volevamo vedere ma anche molte risate. E fu proprio grazie a quel film (certamente non il migliore della sua carriera, ma il migliore come regista) che presi a 'riconsiderare' Sordi. Mi piaceva la mobilità del viso, le battute veloci e certi atteggiamenti tipicamente 'romani': quelli strafottenti e nello stesso tempo pavidi. Ebbi l'impressione che quell'attore avesse come catturato un 'dna' tipicamente italiano ed italiota. E riuscii finalmente a comprendere il perché del suo successo: una grande maschera nella quale erano presenti tanti 'tic' comportamentali che ci appartenevano in qualche modo.
Ma il vero grande, immenso amore per Alberto Sordi scattò negli anni 70, grazie al fiorire di tanti cineclub che nelle loro intelligenti rassegne dedicavano intere settimane ad un regista o ad un attore, esplorando a 360 gradi la sua attività artistica. E fu grazie al Filmstudio e al Cineclub Tevere che presi a 'studiare' Sordi e la 'commedia all'italiana'. 'Un Americano a Roma' e le interpretazioni memorabili ne 'Lo Sceicco Bianco' e 'I Vitelloni' di Fellini mi fecero comprendere che Alberto Sordi aveva una marcia in più: una sensazionale rapidità d'esecuzione della battuta. Nei suoi 'tempi' e nei suoi 'controtempi'. Tutt'oggi ritengo che nessuno come Fellini sia riuscito a delinearci il quadro genetico della comicità drammatica presente nella maschera di Alberto Sordi.
Non so, francamente, quanto Sordi ne fosse consapevole. Perché ogni volta che affrontavamo 'l'argomento Fellini', sembrava quasi sminuire il suo apporto, in quei due film, e mi rimandava a pellicole che francamente io ritenevo minori.
Quando esplose la mia popolarità con 'Un Sacco Bello' e molti, incautamente, cominciarono ad indicarmi come un possibile erede di Sordi, ero molto curioso(e timoroso) del suo giudizio. I miei contatti con lui si erano fermati a Gressoney, con il livido sulla guancia. Ora che i giornali parlavano di 'eredità naturale' mi sentivo una piccola cosa di fronte a lui, quasi un usurpatore.
Invano cercavo di conoscere 'indiscrezioni' sul mio lavoro da parte di Alberto, ma tutto taceva… Tutto tacque fino al Gennaio dell'Ottanta, quando Sergio Leone (allora produttore dei miei primi due film) volle fare una proiezione, in anteprima a casa sua, di 'Bianco,Rosso e Verdone'. Leone riteneva questo film molto buono ma con una 'pecca': il marito logorroico Furio. Secondo lui (e fortunatamente si sbagliava) Furio, 'il marito preciso', era talmente odioso che '…er pubblico non potrà mai ride' cò quello stronzo', ripeteva in continuazione. E aggiungeva: 'Come fai a divertì cò un personaggio che glie taglieresti la capoccia cò nà sega?!!'. Forse dilaniato da questo dubbio invitò tre personaggi chiave a dare un giudizio leale: Sordi, la Vitti e Falcao. Bene, a fine proiezione Sordi venne verso di me raggiante e spalancando le braccia mi disse: 'Viè qua!'. E stringendomi a lui mi chiese ridendo: 'Rifamme un po' quel marito?…. Com'è che dice?…Magda, tu mi adori?'. E insieme, all'unisono, ripetemmo la battuta di chiusura: '…E allora lo vedi che la cosa è reciproca!'. Quell'abbraccio forte e quel sottolineare la battuta del personaggio che Sergio Leone riteneva il più debole del film, fu come passare un esame definitivo. E soprattutto avere la consapevolezza che il grande Sordi stimava il giovane Carlo Verdone. Anche la Vitti e il povero Falcao (che fece uno sforzo disumano a comprendere tutte le battute del film) rimasero entusiasti, tanto da tranquillizzare l'inquieto Sergio Leone sull'efficacia della pellicola.
Secondo me fu proprio da quella serata e dagli elogi ricevuti da Sordi che lo scaltro Sergio Leone cominciò, piano piano, a pensare ad una futura accoppiata tra lui e me. Tant'è che a fine serata lanciò una battuta ad Alberto …..'Certo che non sarebbe male vedervi un giorno 'padre' e 'figlio'…'. Sordi non rispose ma fece una risata di circostanza. Ma intanto il sasso l'aveva gettato … E per come conoscevo Leone, sapevo che se si metteva in testa un'idea, prima o poi, riusciva sempre a realizzarla. Restammo con Sordi che ci saremmo sentiti, che saremmo andati a cena insieme, insomma che ci saremmo frequentati. Ma in realtà, nei mesi a seguire, non successe nulla. Mettersi in contatto con Sordi era un'impresa disperata: rispondeva un'anziana domestica che passava la linea ad un'altra domestica per poi ripassare la linea alla sorella Aurelia che puntualmente rispondeva così: 'No, Alberto non è a Roma. Riprovi tra quindici giorni…'.
Ma la svolta vera e propria nei nostri rapporti arrivò nell'82, quando mio cognato Christian De Sica e sua moglie (mia sorella Silvia) mi invitarono ad una cena alla quale sarebbero stati presenti Paolo Stoppa ed Alberto Sordi. Alla fine della piacevolissima serata, scandita dai continui ricordi divertenti dei due grandi attori, tirai fuori dalla giacca una fotografia di un primo piano di Sordi: volevo assolutamente una frase, una dedica che potessi incorniciare sul muro della mia scrivania. Mi portai addirittura il pennarello da casa …. E lui di getto ci scrisse: 'Giudizio, Carlo! Con tutto il mio PATERNO affetto, Alberto.' Quel 'paterno' fu un'illuminazione. Mi fece sorgere la speranza che il progetto accarezzato da Sergio Leone potesse, prima o poi, diventare realtà.
Con l'uscita di Borotalco e il successo che ne conseguì, una sera ricevetti una telefonata di Sergio Leone che mi disse testualmente: ' Nùn prende' impegni pè domani sera. Stàmo a cena cò Sordi!' Pensai subito: 'E' fatta!' E così, nell'immensa villa di Sergio Leone, dopo una cena pesantissima a base di fettuccine al ragù e cotolette alla milanese, fu dato il via al progetto di un padre con un figlio. E Alberto, di getto, trovò subito un titolo: 'In viaggio con papà'. Piacque così tanto che penso fu una delle rare volte che si andava a scrivere una storia basandosi su un semplice titolo.
Con l'ingresso di Rodolfo Sonego, fidato e collaudato sceneggiatore di Sordi, iniziammo le sedute sul soggetto e la sceneggiatura. Speravo tanto di poter vedere, prima o poi, la casa di Sordi ma non c'era verso. La modesta e disordinata abitazione di Sonego diventò il luogo della creazione di quel film al quale lavorammo sodo per molti mesi. Ma una sera, finalmente, capitò che dovessi andare a prendere Alberto perché eravamo stati invitati a cena da Sylva Koscina a Marino. Arrivai puntualissimo ma Alberto non era ancora pronto, così la sorella Aurelia, in un moto di simpatia e fiducia, pensò di farmi vedere la grande villa (che pochi conoscevano) aprendo un'infinità di stanze e salotti. Da quella visita guidata ebbi un'immagine della personalità di Sordi completamente diversa da quella che offriva in pubblico. Il rigore di un arredamento antico, severo, scuro, perfettamente geometrico mi faceva intuire un'altra anima di Alberto Sordi. Un'anima riservata, disciplinata, irrimediabilmente legata al passato e poco propensa al presente. Non ricordo di aver visto un quadro moderno, una scultura astratta o concettuale, un colore che svettasse su gli altri…. Era come se per Alberto la casa fosse una fortezza o un 'museo' di ricordi nella quale trovava quell'irrinunciabile rigore, disciplina e serenità dopo l'incessante bagno di folla.
Sono sempre stato d'accordo con chi descrive il 'vero comico' come un 'vero malinconico', perché ad ogni azione deve pur corrispondere una reazione uguale e contraria. E questa legge di fisica si adatta perfettamente al carattere di certe personalità dello spettacolo, della musica e dell'arte in genere. Sbaglia chi crede che Sordi fosse Sordi anche nella vita privata. Durante le riprese di 'In Viaggio con Papà' oltre agli inevitabili divertimenti sul set e nelle pause, c'erano anche dei momenti in cui questa sua malinconia, questa voglia di riesumare ricordi, questa paura di non riuscire più a capire la realtà attuale, di non ritrovare più certi 'valori' che l'avevano accompagnato nel periodo più prolifico della sua carriera, prendevano il sopravvento. Era un Sordi 'spiazzato' quello che avevo di fronte sulla terrazza dell'hotel a Punta Ala, mezz'ora prima di andare a dormire. Tutte le nostre chiacchierate a fine cena, con una tazza di tisana in mano, vertevano molto su come diventava sempre più difficile star dietro ad un 'costume' che si modificava continuamente. Una sera mi disse: 'Oggi far ridere è veramente un'impresa. E lo sai perché? Perché non c'è più il senso del 'ridicolo'…. Guardati attorno… So tutti mostri! Ma chi ce fà più caso?…'.
Queste considerazioni potevano anche stupire per chi, come lui, era stato il più grande osservatore di 'mostri' nella storia della commedia cinematografica italiana. Ma queste sue insicurezze ed affanni me lo rendevano vero, umano, sincero.
Oggi che non c'è più mi sento molto responsabilizzato nel mio lavoro. Raccontare ed interpretare anche una piccola parte di quello che ha fatto lui è un'impresa quasi impossibile, ma l'esempio che mi ha lasciato nel suo lavoro, nella sua grande disciplina nell'affrontare questa professione così ardua e faticosa è stato immenso. Sordi non ha eredi. Solo spettatori ammirati dalla sua arte sublime. Io sono uno di questi.