Scritti e ricordi

Ricordo di Ivo Di Persio

Ci sono persone dalla bella anima che non dovrebbero lasciarci così presto. Sono persone degne di ammirazione per la loro umiltà, disponibilità, premura. Persone rare nell’ esserti sempre a fianco nel momento giusto.

Persone che più passa il tempo e più ti insegnano qualcosa: la pazienza, la sopportazione, l’aver fiducia, il ritrovare il coraggio che sembrava smarrito, il fare qualcosa per chi ha veramente bisogno.

Dio benedica questa persona unica , così grande nella sua immensa umiltà, così cara a me, alla mia famiglia e agli amici veri che hanno avuto il grande privilegio di conoscerlo.

Grazie Ivo caro. Grazie per aver fatto parte della nostra famiglia. Grazie per l’esempio costante che ogni giorno ci hai dato. Proteggici in silenzio.

Sappiamo che sei sempre custode delle nostre giornate. Non ti vediamo. Ma ti sentiamo spesso.

Grazie amico caro. Grazie per il regalo di esser stato tra noi tanti anni. Anche se forse troppo pochi …

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Nostalgia di Alberto

Buon Natale ad un grande attore, ad una grande maschera e ad un grande amico che mi manca.

Io, Loro e Lara

Commento del Teologo Antonio Autiero, Professore di Teologia Morale a Munster.

Il nuovo film di Carlo Verdone va letto a partire dal canone degli impianti e del linguaggio di una commedia. Esso tende a catturare la realtà, nella sua carica di paradossi e di intrecci che funzionano sul piano narrativo massimamente a partire dal loro essere tutti insieme,forse ammassati in una finzione da cui la vita reale però spesso ,e per fortuna ,ci risparmia. Questo plesso di fatti, questa coincidenza di accadimenti probabili,forse anche una sequenza di situazioni scontate sono il vero tema del film. La storia di Don Carlo la sfiora o,forse meglio, da essa si lascia sfiorare. Così si intrecciano, ma in un modo asimmetrico,la vicenda di un uomo e lo stile di vita di una società ,ambedue in crisi. Solo che della crisi dell’uno,poco interessa agli altri,mentre lo stato caotico degli altri tocca al cuore la fragile e pur tenace esistenza del primo.

Non so se il poco interesse per la crisi di fede di Don Carlo sia dovuto a una troppo sfumata ,in definitiva per nulla elaborata presentazione della stessa da parte del protagonista. Oppure se il far diventare piuttosto secondaria la crisi non sia il risultato di un non sottrarsi da parte di Don Carlo al turbinio della realtà che lo travolge. Il costo di questo consisterebbe nel fatto che il prete e la sua crisi finiscono per essere quasi solo l’occasione per raccontare la realtà della vita di ogni giorno. Ma in questo andirivieni di piano principale e piano secondario c’è già un potente messaggio del film stesso che assegna al vissuto ,alla realtà ,all’esistenza un suo primato,anche rispetto a un livello di interessi e di temi richiamati dall’essere prete di Don Carlo.Di più :il suo essere prete “nella realtà” ,il suo condividerla “in modo laico”(come diceva il suo morbido superiore) gli restituisce continuità e gli fa ritrovare la vita e la forza per tornare poi al suo posto.

Mi sembra interessante questo passaggio: la realtà non chiede distanza,negazione in nome di un altro mondo ,ma sollecita interesse ,compagnia ,condivisione ,pur mantenendo le debite distanze. Ma esse non possono essere definite in base a clichè standardizzati. E di questo Don Carlo sembra consapevole ,offrendoci una lezione sommessa, ma convinta ,di chi si sa curvare sulla realtà e sulle sue eccedenze , rinunciando al giudizio sommario dei moralisti e dei presunti antinichilisti .E forse il poco di buono che riesce ad operare(una sorta di redenzione in orizzontale) va proprio attribuito a questo “stile presenza” al mondo che il confuso Padre Carlo sa ancora esprimere.

Di lui si può dire di tutto : sa di non sapere più così bene dove sta e come ritrovare la strada ; dai pregiudizi che impastano la vita degli altri (loro) in fondo si lascia prendere un po’ anche lui; di una certa libertà di modi (Lara) sembra avere anche lui residui di nostalgia . Rispetto al sistema da cui proviene (istituzione ecclesiastica) oscilla in un movimento ambiguo ,quasi da copione ,tra identificazione e rivendicata libertà.

Ma in definitiva il suo è un fondo sano che lo porta a non sottrarsi alla dedizione per gli altri. Il suo sguardo sulla realtà è esigente ,senza però essere severo e tuttavia capace di cavarne quel poco ( poi veramente così poco?) di buono che entra tutto nei pollici di un Desktop ,per raccontare un natale da lontano dove ,almeno quella volta, tutto ritorna.

Alla fine si può dire che il film senza essere indulgente a poco prezzo rispetto alla realtà ,il cui spaccato vuole rappresentare ,è tuttavia sanamente riconciliato con essa . Burlandola ,qualche volta , l’accarezza accondiscendente. Anche riguardo al contesto di provenienza di Don Carlo, come parte di un sistema istituzionale (chiesa), il film è ampiamente misericordioso , consegnandoci storie e volti mediante comprensivi ,anche se talvolta concentrati più su un fumante piatto di pasta asciutta che sui non meglio identificati travagli dell’anima del confratello in pena.

E se dal film esci sorridendo , divertito , grandemente ammirato per l’abilità artistica del Carlo vero ,qualche motivo di pensare te lo porti a casa, comunque. E capisci che hai fatto bene ad averlo visto.

Antonio Autiero
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Un Traguardo Importante

L’altro giorno, frugando in una vecchia scatola di piccole foto in bianco e nero appartenuta ai miei genitori, ne ho trovata una molto bella del 1957.

Era un po’ sbiadita e rigata: ritraeva mio padre ,sul pontile dell’Excelsior del Lido di Venezia, che mi abbracciava. Un abbraccio protettivo al suo petto. Eravamo sorridenti e felici, orgogliosi l’uno dell’altro. Ignari della benevolenza che ci avrebbe regalato il destino negli anni a venire.

Quella foto mi riportava ad una vita passata dove scorrevano nei miei ricordi solo belle immagini: una famiglia felice, una casa della fine dell’ 800 dalle ampie stanze (in una di quelle nacqui nel novembre del 1950 grazie ad una esperta levatrice, la signora Pazzaglini),con un lungo terrazzo che abbracciava la Roma del Gianicolo, di Ponte Sisto, di Palazzo Farnese, della Sinagoga. Ora quella casa non c’è più, restituita al Vaticano dopo la morte di papà lo scorso anno. E con lei si è chiuso un grande album: di volti, di voci, di grida, di risate inconfondibili, di musica. Ricordo tutto, perché voglio ricordare tutto. E questo mi fa apparire il tempo trascorso fino ad oggi lungo. Immenso.

Illuminato da una stella protettiva. Ma ritengo che questo scorrere lento del tempo, fino a quando non iniziai la mia professione nel cinema,sia stato un bel regalo. Si perché vuol dire che di cose ne ho fatte molte, condividendole sempre con gli amici e la famiglia: emozioni, incontri,amori, viaggi,scoperte, paure, gioie e qualche inevitabile atroce dolore. Quando sei giovane e cominci a coltivare delle vere passioni vivendole intensamente, le giornate sono lunghissime e i mesi interminabili. E’ la prova che non stai esistendo ma vivendo e condividendo. E io ho vissuto, da ipersensibile, le mie emozioni con enorme trasporto.

Molti amici ultimamente mi avevano messo in guardia sul sessantesimo compleanno, arrivando a dirmi che avrebbero pagato il diavolo con qualsiasi cifra pur di tornare indietro di cinque, anche di quattro anni. Perché il 60 è l’autobus degli anziani, perché 60 sa tanto di numero secco al lotto (lotteria preferita dai pensionati), 60 sono appunto gli anni della pensione e 60 era il numero più temuto dagli antichi romani perché pochi, in quell’epoca, superavano i 63 anni. Insomma un ritratto ansiogeno di questo numero che francamente, ora che lo sto raggiungendo, non mi sembra così apocalittico. Anzi, se posso dire la verità, mi sembra un importante traguardo e un numero serio, autorevole. Un numero che dovrebbe testimoniare l’abbondanza del raccolto dopo la semina in gioventù.

E’ ovvio che la salute deve sostenerti in qualche modo, su questo non ci piove. E se questa ti è ancora amica tanti, tantissimi sono i vantaggi che un uomo di sessant’anni dovrebbe avere. Posso provare ad elencarne qualcuno che mi riguarda: sono diventato più saggio nei giudizi, mi metto spesso in discussione,sono più paziente con il prossimo,più prodigo di consigli verso i miei figli e gli amici cari, più attento ad ascoltare le opinioni degli altri,soprattutto dei giovani. Più insofferente delle ingiustizie sociali (perché più fortunato di tanti altri),sempre più portato all’indignazione per l’ingiusto, più incline ad una riflessione spirituale. Riflessione che mi accarezza spesso la notte ,pur tra mille interrogativi. No, non voglio affatto dire che sto raggiungendo una splendida serenità perché sarei un bugiardo.

Ma solo che sto entrando piano piano nell’anticamera di una saggezza, pienamente adulta, basata molto sul buon senso. E poi c’è un altro motivo (il più importante) per il quale io invece non pagherei nessuna cifra per tornare indietro: i ricordi. Quelli di quando ero bambino sono poetici ricordi di una affascinante Roma in bianco e nero,senza traffico, attraversata dai tram e dai filobus che non inquinavano. Della gente di Trastevere che si parlava da finestra a finestra in canottiera o in vestaglia, del “li mortacci tua!” che in quell’epoca era il massimo dell’offesa. Dei cinema del centro storico, dove mi portavano i miei genitori, che magicamente,alla fine di ogni spettacolo aprivano automaticamente il soffitto per far uscire il fumo delle sigarette. Della gente normale che a prescindere dallo stato sociale aveva molta più dignità di quella di oggi.

La Roma dell’orchestrina del Bar di Piazza Esedra, dove le cameriere e i soldati ,il sabato e la domenica pomeriggio, speravano di fidanzarsi. La Roma di Via Veneto,dove i miei zii Gastone ed Ermanno,pettinati con la brillantina Linetti, non riuscivano a nascondere la loro anima da viveurs notturni.

Lo Stadio Olimpico, in quegli anni marmoreo, luogo di battute e striscioni di rara comicità senza alcuna violenza. Insomma, un film che potrei raccontarvi per immagini per ore e ore. Immagini in bianco e nero che non svenderei per nessuna cifra e che rimarranno nella mia memoria fino a quando la potrò possedere. Immagini di dolce nostalgia che sono fiero di custodire: quelle di una città e di un Paese che nel dopoguerra si stava preparando ad un suo riscatto economico con grande dignità e una dose di buonumore. Immagini che mi colpivano da bambino e preparavano la mia sensibilità al grande “dono misterioso” di poter comunicare un giorno col grande pubblico.

Mi sono sempre chiesto chi dovessi ringraziare per quello che mi è capitato. Rossellini? Che fu il mio primo insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia e il primo a credere in me. Sergio Leone? Che produsse i miei primi due film e mi “intimò” di scriverli,dirigerli ed interpretarli da solo. Mia madre? Che fu la prima a darmi un calcio nel sedere, vedendomi in preda all’ansia, la sera della mia prima avventura teatrale? Non lo so. Forse tutti … O forse solo me stesso, per la mia curiosità per la gente più anonima.

Quella gente che ,inconsapevole della sua comicità, era un mondo da scoprire nei suoi tic, difetti, miserie e candori. Fino ad oggi penso di aver raccontato tante debolezze, parecchie solitudini, alcune miserie e qualche nefandezza seguendo bene il cambiamento dei costumi, del linguaggio e dell’atteggiamento dal 1979 (data del mio esordio nel cinema) ad oggi. Quanto sia importante il mio lavoro non posso assolutamente stabilirlo io. E forse neanche perfettamente il critico cinematografico di un quotidiano. Ma solo il tempo. Il tempo resta sempre il giudice più severo ed imparziale. Gli anni che passano o esaltano un’opera o la declassano, dandole il perfetto valore storico ed artistico.

Di sicuro alcuni documenti incisivi su più di trent’anni di storie e personaggi dell’Italia di oggi dovrei averli consegnati. Dovrei. Come mi sono sempre sforzato di non dare mai lo stesso film al pubblico: sterzando tra l’iniziale virtuosismo di matrice teatrale e racconti più intimi con un velo di malinconia. Capisco benissimo lo smarrimento del critico di fronte a pellicole così spesso distanti e la conseguente incapacità di darmi una definizione precisa. Perché “Compagni di Scuola” e “Viaggi di Nozze” sono due impronte molto diverse, anche se la “malincomicità” che li pervade è un piccolo comune denominatore che poi lega anche altre mie pellicole.

Ma come ripeto i conti si faranno alla fine, col tempo. Quanto mi è costato questo lungo lavoro fino ad oggi? Tanto, tantissimo. Perché ogni film è un ricominciare da capo, perché non devi mai deludere, perché due insuccessi consecutivi non sono ammessi dalla legge della produzione, perché con il tempo cominci ad appartenere al tuo pubblico e rischi di dedicare troppo poco tempo agli affetti di chi ti vive accanto.

Perché la realtà che oggi hai di fronte è spesso orribile e ci vuole un grande slancio per rubare quegli ormai pochi aspetti ironici che sono il condimento della Commedia. Sposando il rigore e la disciplina ho perso sicuramente molte cose della vita normale, ma è anche vero che mi si sono aperte tante opportunità per conoscere luoghi e persone speciali. Ecco, se all’inizio dell’articolo sottolineavo quanto lentamente scorresse il tempo nella mia infanzia ed adolescenza, ora devo invece constatare che sta volando giorno dopo giorno. Non so se è un buon segno. Ma la corsa, anche se con un po’ di fiatone in più, continua.

Continua strenuamente tenendo sempre il ritmo di “I Don’t Live Today” di Hendrix. Non so quanti giri di pista riuscirò ancora a fare (perché la salute dovrà ancora essermi alleata), ma quelli che avrò ancora nella gambe dovranno esser sempre eleganti e dignitosi. A questo tengo molto. Il segreto di tanta energia? Che non ho mai vissuto da “artista” ma da grande “fan” dei veri talenti. E a 60 lo sono ancora. Anzi forse di più. Tutto qua. P.S Vorrei ringraziare alcuni splendidi “maturi” che mi fanno sentire ancora in gara: Eric Clapton,Robert Plant, Jeff Beck, David Sylvian, David Lynch, Steve Winwood, Meryl Streep, Bruce Springsteen, Clint Eastwood e tanti tanti tanti altri.



Mario Verdone

In genere quando un genitore è molto anziano ci si prepara lentamente alla sua partenza. Ci si pensa spesso e si comincia a metabolizzare l’arrivo di quel drammatico giorno. Noi tutti, in qualche modo, credevamo di sopportare con grande e dolorosa filosofia la sua partenza. Ma è accaduto qualcosa di speciale. E cioè che nostro padre Mario ha dato il meglio di sé stesso proprio in quei giorni di ricovero per la malattia. Ci è apparso un altro lato della sua grande persona che non sapevamo essere così elevato.

Mi spiego meglio …. Tutti noi siamo a conoscenza di quella che è stata la sua grande cultura, la sua insaziabile voglia di apprendere, i suoi molteplici interessi per il Cinema,il Teatro,la Pittura,le Avanguardie storiche,la Musica. Giornali e televisioni ne hanno parlato tanto. Molti conosceranno i suoi preziosi saggi su momenti e personaggi importanti nel campo dell’Arte. E la sua non banalità nel celebrare solo “l’universalmente riconosciuto” ma privilegiando quegli autori( a torto considerati minori) di grande talento cui il destino non aveva regalato il giusto merito. Di queste virtù e di altri meriti ,chi lo ha studiato sa bene che ne era colmo.

Ma come dicevo prima la sua grandezza di uomo ci è apparsa nelle sue ultime ore. Abbiamo visto realmente la grande dignità, l’immensa discrezione di un uomo semplice,umile e ricco di valori(che non osava spingere il campanello della stanza per non disturbare gli infermieri). A noi figli diceva non disturbatevi troppo a venire fin qui … Perdete mezza giornata nel traffico. Un giorno mi ha pregato di andarlo a trovare solo il sabato perché aveva paura che mi deconcentrassi per il mio film. “Lo devi far bene! E’ un argomento delicato,non sbagliare nulla” Mi diceva. “Pensa al tuo lavoro e non ad un viaggiatore che aspetta un treno in ritardo”.

E a mio figlio disse …. “Papà è uscito dalla stanza?” Paolo disse si. Ma io ero sulla soglia e ascoltai tutto. “Paolo, tu devi portare avanti il nome dei Verdone. Hai una grande responsabilità … Io non voglio che tu abbia il nome sui giornali o che tu sia ricco. Io voglio che tu sia un uomo retto nella tua vita. La tua ricchezza deve essere solo la tua grande dignità. Perché oggi la dignità non esiste più”…. Hai capito? E Paolo il giorno dopo corse in clinica a dirgli che aveva preso trenta ad un esame. Gli sorrise a lungo soddisfatto.

E la sua ultima immagine fu quella che mi porterò per sempre nel mio cuore. Dopo averlo baciato sulla sedia del terrazzino della clinica gli dissi: “Domani ho una giornata lunga e dura forse dopodomani ce la faccio a tornare …” E lui chinò il capo signorilmente e con un sorriso mi disse con voce amabile:” Auguri per tutto figlio mio.”
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Il concerto degli 'Who' a Verona

In un’intervista del 70 ai Beatles cui chiedevano quale fosse il destino musicale del rock negli anni a venire,John Lennon rispose senza esitazione: “ I Led Zeppelin e gli Who influenzeranno molto gli anni a venire. Sono gli unici che con il loro modo di suonare saranno all’avanguardia”. Mai più previsione fu più azzeccata. E mai oltraggio ai Rolling Stones fu così impietoso! Ma Lennon,uomo di grandi intuizioni, aveva perfettamente capito che in quei due gruppi storici c’era un’ispirazione creativa straordinaria in continua evoluzione. E’ ovvio che non poteva parlare dei Pink Floyd perché era una band psichedelica e il non riferimento agli Stones era dovuto come ad una sorta di grandiosa,potente “immobilità stilistica”.

Vidi gli Who per la prima volta a Roma nel 1967 al Palazzo dello Sport,famoso per avere una delle peggiori acustiche del mondo. Un lungo manifesto murale a forma orizzontale,pubblicizzava ,sui muri della capitale, con un fondo nero ed una grande scritta bianca il nome della band. Quel fondo nero aveva qualcosa di minaccioso e la grandezza dei caratteri dava l’idea di qualcosa di veramente potente. Conoscevamo a memoria alcune loro hits come “My Generation”,“Happy Jack”e sapevamo soprattutto della loro furia distruttiva alla fine di ogni loro concerto.

La leggenda che li accompagnava era quella di stare lontano dal sottopalco per non prenderti addosso pezzi di batteria,aste,frammenti di chitarra disintegrata,piatti e una bacchetta nell’occhio. Ma noi,intrepidi curiosi,volemmo sfidare quella “diceria” che ci sembrava un po’ una cazzata. Dopo le solite impietose urla e pernacchie ai gruppi che li precedevano,fu portata sul palco una batteria con doppia cassa e un’infinità di tamburi e piatti attorno. Quella specie di “macchina da guerra” era la premonizione che un bombardamento sonoro si stava per abbattere su di noi.

La performance del chitarrista Pete Townshend e del batterista Keith Moon lasciarono il pubblico senza parole,tale era l’energia furibonda scaricata sui loro strumenti. Una carica che appariva ancora più folle dall’opposto ,serafico comportamento del cantante Daltrey e del bassista Entwistle. Per farla breve, dopo quaranta minuti viene dato fuoco ad un amplificatore,il fumo avvolge il palco e Townshend tenta di spaccare la chitarra in terra, mentre dalla batteria cominciano a volare piatti e tamburi verso il pubblico. E’ il caos.

Un vigile del fuoco segaligno interviene con un estintore ma viene preso a fischi e parolacce dal pubblico. E come se non bastasse viene sbattuto fuori a spintoni dallo stesso Townshend. Montano sul palco due coatti che si fregano gli strumenti lanciati e scappano come due lepri. Gli Who distruggono tutto e lasciano un campo di battaglia pieno di reliquie strumentali.

Gli organizzatori accendono le luci e fanno capire che lo spettacolo è finito. Ma non è finita per i “rapinatori” che si fregano di tutto e di più. Prende fuoco un secondo amplificatore. Il Palazzo che si chiama dello Sport diventa una bolgia indecente,una grande pattumiera in fiamme. Gli Who si erano presentati così al pubblico romano.

Ma sarebbe superficiale e scorretto definire gli Who dei pazzi violenti per l’immagine dei loro esordi. Perché nel 1969 pubblicano un album doppio dal titolo “Tommy” (la prima grande opera della storia del rock),che resta una delle “pietre miliari” per creatività musicale,profondità nei versi,importanza del tema narrativo. Con “Tommy”(storia di un ragazzo sordomuto ribelle) si delinea la grandezza nella compositiva di Pete Townshend. Brani potenti,malinconici,ironici,evocativi che rivelano la raffinatezza suprema di quest’uomo dotato di un’energia creativa senza pari.

La padronanza nella composizione è tale che “Tommy” avrà anche un’edizione sinfonica con l’apporto vocale di altre rock star insieme a Roger Daltrey e il regista Ken Russell ne trarrà un grande film visionario. Ma è nel 71’ con l’album “Who’s Next” che il loro stile si delinea definitivamente. E’ uno dei più affascinanti 33 giri mai ascoltati nel trasmettere un’energia potente e positiva, ,tipica della creatività furiosa di quel periodo. Gli Who diventano completi,raffinati ma ascoltarli dal vivo è ben altra cosa. Fu così che nel 72 tornai,con un gruppo di amici dell’Università, a rivederli al Palazzo dello Sport. Volevamo soprattutto ascoltare la travolgente “Won’t Get Fooled Again” dove il chitarrista Towshend strappava gli accordi secchi e distorti roteando il braccio a “ mulinello”.

Due ore di brani senza pause,col volume al massimo e la solita distruzione del palco,come ai vecchi tempi. Ricordo che restammo sordi per due giorni,con le orecchie che ci fischiavano. Eravamo tutti appagati e soddisfatti e non facevamo che chiederci quanta “roba” s’erano dovuti prendere per fare quello che avevamo visto. Chi non era ancora sazio era un mio compagno di università,tale Tommasoni. Ci convinse ad andare tutti insieme all’Hotel Corsetti,vicino al Palazzo dello Sport,dove alloggiavano gli Who. In pratica voleva farsi fare un autografo da loro. “A’ sto’ punto faccelo fa’ pure a noi…” replicammo. “Dateme i nomi! “,aggiunse sicuro.Ed entrò nella piccola hall dell’hotel. Tommasoni era un cafone di rara portata,che non si capiva come potesse frequentare la Facoltà di Lettere.

Uno di quelli che anziché dire “Che mi dici?” lo pronunciava: ”Che me dichi?”… Confidavamo nella sua prepotente intraprendenza per avere le firme dei nostri miti. Ma dopo appena cinque minuti esce scuotendo la testa e dice: “Stanno già in camera,li mortacci loro…” Tentammo di convincerlo a venir via anche perché due dello staff degli Who ci stavano guardando male. “ Se pensate che m’arrendo ve sbajate! Almeno n’saluto glielo devo strappà…” Con una faccia tosta senza limiti si mette sotto le finestre e comincia a strillare il nome del batterista “..Ah Keith!!! Keith,affacciate!.... Ah,Keith, YOU ARE THE GREATEST!!! Improvvisamente da una finestra viene lanciato un televisore da camera che per poco non l’ammazza.Il botto è tale che scappiamo tutti in direzioni diverse. Ma Tommasoni non è con noi. Da lontano sentiamo l’eco della sua voce urlare: “A stronzo!...Ma t’ho chiesto n’saluto mica te volevo sparà…”.

Gli Who ,dopo aver pubblicato un’altra grande opera rock, “Quadrophenia” (dalla quale sarà tratto un ottimo film),perderanno presto la loro spina dorsale ritmica:il batterista Keith Moon. E con “It’s Hard” del 83’ cessano la scrittura di nuove canzoni. Ma restano sempre a galla,immortali ,grazie a dei fantastici concerti dal vivo dove la rivisitazione del loro repertorio ce li riconsegna sempre attuali,sempre esempio di grande,possente rock per le nuove generazioni.

Imitando mio padre,che da “grande genitore” fece la mia felicità portandomi a vedere i Beatles,ho voluto fare la stessa cosa con mio figlio Paolo,giovane chitarrista devoto alla musica degli Who. E così,insieme, ci spostiamo a Verona ,unica data italiana dei superstiti Townshend e Daltrey (essendo morto dopo un concerto a Las Vegas nel 2002 il bassista Entwistle), con la speranza di ritrovare quelle note che fecero felici i miei vent’anni e che forse potranno emozionare i suoi diciannove.

Già dal pomeriggio il centro di Verona è ingolfato di gente:dialetti calabresi,romani,sardi,emiliani,siciliani si mischiano alla maggioranza veneta. Vecchi hippies, facce da impiegati, ragazzi con il piercing,borghesi di mezz’età con figli ,giovani stile no global, insomma gli Who riescono a compattare più generazioni in un’unica grande massa. Segno di una musica col dono di un’immortalità.

Ore 21,15,le luci si abbassano e ci fanno intravedere sopra le nostre teste un cielo minaccioso come non mai. Tocchiamo ferro. Il palco s’illumina e parte “I Can’t Explain”,il loro primo successo degli anni 60. Un’introduzione potente ed orecchiabile che scalda subito la moltitudine. E’poi la volta di “The Seeker” e “Substitute” eseguite da Townshend,in completo grigio ed occhiali scuri, con una grinta da ventenne.

La voce di Daltrey ancora regge bene. Ma sulla violenta “Who Are You”,una serie di fulmini a “zampa di gallina” preannunciano un disastro atmosferico. I capelli del batterista Zak Starkey vengono investiti da una tromba d’aria che fa traballare non solo i piatti della batteria ma l’intera struttura. Viene giù un diluvio biblico. Le luci del palco si spengono e temiamo la fine di tutto dopo appena 25 minuti. Il pubblico sembra come ripescato da un fiume,fradicio dalla testa ai piedi. Dopo un’ora,in uno stato di pre-polmonite, vediamo il palco riaccendersi. Si riparte. Ma sulle note della dolce “Behind Blue Eyes” il povero Daltrey stecca alla prima nota. Furibondo,abbandona il palco. Ci spiegano che la sua voce “si è raffreddata” e il concerto termina. Urla,fischi,improperi….:”Mi sei costato 140 euro, ma va’ a cagher!” Una volta erano gli Who a tirare la roba contro il pubblico,stavolta è il pubblico che si prepara a tirargli di tutto. Ma a fare il miracolo è Pete Townshend. Si carica dell’immensa responsabilità di risollevare quel la serata maledetta stravolgendo la scaletta e cantando lui stesso tutto. Non solo ci riesce,ma sembra molto più efficace di Daltrey quando è in forma. Si fa in quattro! Emana energia e rabbia che ci riportano ai suoi vent’anni. L’esecuzione di “My Generation” e dell’esplosiva “Won’t Get Fooled Again” ,con rara potenza negli accordi,ci ripagano di quella serata maledetta. Non è stato il concerto degli Who,ma quello di Pete Townshend. E alla fine,credetemi, è valso i reumatismi che ancora mi porto addosso. Grazie Pete. YOU ARE THE GREATEST


Omaggio ad Alberto Sordi

La sera del 26 febbraio una folla silenziosa è in fila composta sul Piazzale del Campidoglio. Scorre lentamente sotto l'austera statua del Marco Aurelio a cavallo per poi entrare nell'Aula Consiliare dove è esposta la salma di Alberto Sordi.

Sono persone di tutti i ceti, di tutte le età: poveri e ricchi, giovani ed anziani, romani e non romani. Quel luogo, ricco di memorie latine, imperiali crea una strana impressione: sembra di assistere all'omaggio che il popolo rende al suo Cesare. Un imperatore buono, dal faccione un po' pavido e un po' strafottente le cui gesta sono impresse in chilometri e chilometri di pellicola.

Ma per comprendere la depressione profonda in cui è caduta gran parte degli italiani per la sua scomparsa non c'è bisogno di un attento studio psicologico sui comportamenti di massa (come ha sottolineato più di un intellettuale). Il motivo è tutt'altro che complesso: Alberto Sordi ha rappresentato un'efficacissima 'maschera della Commedia dell'Arte'. Una 'maschera' ben più vicina a noi dei vari Pulcinella, Pantalone, Arlecchino. Perché se queste restano pur sempre delle 'astrazioni' delle varie anime di questa nostra cultura, Alberto Sordi era noi. Noi con le nostre insicurezze, pavidità, infantili strafottenze e cinismi lavativi. Il viso di Sordi era una maschera naturale, facilissima da leggere in tutte queste sfumature caratteriali. Ed aveva un grande pregio: era buffa, faceva ridere. Era terribilmente vera, umana.

Il fatto che la 'maschera' di Sordi abbia scandito circa mezzo secolo della storia di questo Paese, dal dopo guerra, alla ricostruzione, dalla ripresa economica al 'boom', per poi affrontare i temi e i problemi di un società che si ritrova in un ribaltamento dei suoi valori culturali, etici e politici, ce lo rendono testimone di cinquant'anni di storia. Cinquant'anni di osservazioni di un comico su una realtà, un costume che muta rapidamente. In poche parole, molti si identificavano in lui e lui in gran parte di noi.

Quand'ero bambino sentivo molto parlare di lui in casa, dei suoi film, delle sue battute, del suo modo di vivere. Si, perché Sordi (quanto è strano il destino….) viveva di fronte alla finestra della mia camera da letto. Tutti e due ci affacciavamo su una stradina del Rione Regola (vicino Campo de Fiori) che si chiama Via delle Zoccolette. Se è vero che ad ogni nome è legato un destino, vivere in Via delle Zoccolette non poteva che far presagire qualcosa di comico. Curioso di vedere il faccione del 'mitico' Sordi, nominato e celebrato continuamente, fui portato ad escogitare uno stratagemma per farmelo finalmente apparire. Presi a bersagliare la sua finestra (a sei metri di distanza dalla mia) con sassetti presi dai vasi dei fiori, fiducioso che prima o poi si sarebbe fatto vedere. Il risultato fu disastroso: ad apparire non fu lui ma il faccione della sorella Aurelia che con un vocione gridò: 'A regazzì, se nùn te ne vai te gonfio!'. Rimasi fulminato da quelle parole e scappai di corsa dentro casa. Convinto ormai che Alberto Sordi ben difficilmente si sarebbe fatto vedere per colpa di 'quel ragazzino rompiscatole', mi misi l'anima in pace. Senonché un pomeriggio lo vidi in carne ed ossa entrare, accompagnato dalla sorella Aurelia, in una macchina lussuosa che lo attendeva fuori del portone. Ebbi pochi secondi per imprimermi bene nella mente la statura ed il viso del più grande attore comico italiano. Ma….un'allucinazione mi colse all'improvviso: il faccione di Alberto era preciso identico a quello della sorella Aurelia. Se Aurelia si fosse vestita da uomo poteva benissimo essere il fratello e viceversa. Erano identici anche nella statura. Da qui il dilemma: ma non poteva essere stato lo stesso Sordi a dirmi 'te gonfio'? Questa fantasia me la portai dentro per buona parte dell'infanzia, forse 'orgoglioso' di aver avuto un contatto diretto col grande attore.

Ebbi un altro approccio con Sordi che me lo rese profondamente antipatico. Avrò avuto dieci anni e i miei genitori mi portarono a Saint Vincent per assistere alla consegna del Premio Cinematografico 'Le Grolle d'Oro'. Un premio prestigioso dato dai critici ai migliori cineasti dell'anno. Mio padre era nella giuria e Sordi era premiato. Lo incontrammo una mattina durante una passeggiata al laghetto di Gressoney. Sordi fu molto affettuoso con i miei genitori ma quando fu il momento di presentarmi a lui mi fissò a lungo e sentenziò con tono strafottente: 'Ma n'do vai vestito cosi' cò la piccozza in mano?'. In effetti mi ero fatto comprare da mia madre un completo valdostano con tanto di piccozza e cappelletto con la piumetta. Diventai rosso dalla vergogna e dalla timidezza ma lui continuò '…Ma che devi scalà?'. E facendomi una risata in faccia mi diede un pizzico sulla guancia così energico che mi lasciò un piccolo livido. Da quel giorno Sordi mi cominciò a far paura per quella risata diabolica e mi feci l'idea di un personaggio che odiava i ragazzini.

Mi disinteressai di Sordi per buona parte della mia adolescenza, fra l'altro lui aveva anche cambiato casa trasferendosi in una villa a tre piani alle Terme di Caracalla, villa che riuscì ad acquistare prima di Vittorio De Sica, procurando a quest'ultimo un immenso dolore. Ma era evidente che per andare ad abitare nel posto più significativo e pregiato di Roma ci doveva essere stato un grande balzo nella fama e nel guadagno.

Nel 1966, in piena esplosione 'beat', sui cartelloni stradali veniva pubblicizzato un film dal titolo 'Fumo di Londra' con la faccia di Alberto Sordi vestito da 'old english' con tanto di bombetta in testa. La curiosità di andare a vedere quel film, insieme ai miei compagni di liceo, non fu tanto dettata dalla presenza di Sordi quanto dal fatto che nel film c'era Londra, il sogno di tutti i nostri viaggi. In quegli anni Londra era la patria di una nuova èra, di una nuova musica, di una moda che ci ispirava continuamente per i suoi colori e per i suoi azzardi. Immaginavamo che tipo di storia potesse essere, col solito italiano bacchettone atterrato in una terra di 'matti'. Ma alla fine quello che ci intrigava era il vedere la 'London Beat' nel suo aspetto documentaristico. Sempre che Sordi ne fosse stato capace. E in effetti ci riuscì abbastanza bene, regalandoci non solo le immagini che volevamo vedere ma anche molte risate. E fu proprio grazie a quel film (certamente non il migliore della sua carriera, ma il migliore come regista) che presi a 'riconsiderare' Sordi. Mi piaceva la mobilità del viso, le battute veloci e certi atteggiamenti tipicamente 'romani': quelli strafottenti e nello stesso tempo pavidi. Ebbi l'impressione che quell'attore avesse come catturato un 'dna' tipicamente italiano ed italiota. E riuscii finalmente a comprendere il perché del suo successo: una grande maschera nella quale erano presenti tanti 'tic' comportamentali che ci appartenevano in qualche modo.

Ma il vero grande, immenso amore per Alberto Sordi scattò negli anni 70, grazie al fiorire di tanti cineclub che nelle loro intelligenti rassegne dedicavano intere settimane ad un regista o ad un attore, esplorando a 360 gradi la sua attività artistica. E fu grazie al Filmstudio e al Cineclub Tevere che presi a 'studiare' Sordi e la 'commedia all'italiana'. 'Un Americano a Roma' e le interpretazioni memorabili ne 'Lo Sceicco Bianco' e 'I Vitelloni' di Fellini mi fecero comprendere che Alberto Sordi aveva una marcia in più: una sensazionale rapidità d'esecuzione della battuta. Nei suoi 'tempi' e nei suoi 'controtempi'. Tutt'oggi ritengo che nessuno come Fellini sia riuscito a delinearci il quadro genetico della comicità drammatica presente nella maschera di Alberto Sordi.

Non so, francamente, quanto Sordi ne fosse consapevole. Perché ogni volta che affrontavamo 'l'argomento Fellini', sembrava quasi sminuire il suo apporto, in quei due film, e mi rimandava a pellicole che francamente io ritenevo minori.

Quando esplose la mia popolarità con 'Un Sacco Bello' e molti, incautamente, cominciarono ad indicarmi come un possibile erede di Sordi, ero molto curioso(e timoroso) del suo giudizio. I miei contatti con lui si erano fermati a Gressoney, con il livido sulla guancia. Ora che i giornali parlavano di 'eredità naturale' mi sentivo una piccola cosa di fronte a lui, quasi un usurpatore.

Invano cercavo di conoscere 'indiscrezioni' sul mio lavoro da parte di Alberto, ma tutto taceva… Tutto tacque fino al Gennaio dell'Ottanta, quando Sergio Leone (allora produttore dei miei primi due film) volle fare una proiezione, in anteprima a casa sua, di 'Bianco,Rosso e Verdone'. Leone riteneva questo film molto buono ma con una 'pecca': il marito logorroico Furio. Secondo lui (e fortunatamente si sbagliava) Furio, 'il marito preciso', era talmente odioso che '…er pubblico non potrà mai ride' cò quello stronzo', ripeteva in continuazione. E aggiungeva: 'Come fai a divertì cò un personaggio che glie taglieresti la capoccia cò nà sega?!!'. Forse dilaniato da questo dubbio invitò tre personaggi chiave a dare un giudizio leale: Sordi, la Vitti e Falcao. Bene, a fine proiezione Sordi venne verso di me raggiante e spalancando le braccia mi disse: 'Viè qua!'. E stringendomi a lui mi chiese ridendo: 'Rifamme un po' quel marito?…. Com'è che dice?…Magda, tu mi adori?'. E insieme, all'unisono, ripetemmo la battuta di chiusura: '…E allora lo vedi che la cosa è reciproca!'. Quell'abbraccio forte e quel sottolineare la battuta del personaggio che Sergio Leone riteneva il più debole del film, fu come passare un esame definitivo. E soprattutto avere la consapevolezza che il grande Sordi stimava il giovane Carlo Verdone. Anche la Vitti e il povero Falcao (che fece uno sforzo disumano a comprendere tutte le battute del film) rimasero entusiasti, tanto da tranquillizzare l'inquieto Sergio Leone sull'efficacia della pellicola.

Secondo me fu proprio da quella serata e dagli elogi ricevuti da Sordi che lo scaltro Sergio Leone cominciò, piano piano, a pensare ad una futura accoppiata tra lui e me. Tant'è che a fine serata lanciò una battuta ad Alberto …..'Certo che non sarebbe male vedervi un giorno 'padre' e 'figlio'…'. Sordi non rispose ma fece una risata di circostanza. Ma intanto il sasso l'aveva gettato … E per come conoscevo Leone, sapevo che se si metteva in testa un'idea, prima o poi, riusciva sempre a realizzarla. Restammo con Sordi che ci saremmo sentiti, che saremmo andati a cena insieme, insomma che ci saremmo frequentati. Ma in realtà, nei mesi a seguire, non successe nulla. Mettersi in contatto con Sordi era un'impresa disperata: rispondeva un'anziana domestica che passava la linea ad un'altra domestica per poi ripassare la linea alla sorella Aurelia che puntualmente rispondeva così: 'No, Alberto non è a Roma. Riprovi tra quindici giorni…'.

Ma la svolta vera e propria nei nostri rapporti arrivò nell'82, quando mio cognato Christian De Sica e sua moglie (mia sorella Silvia) mi invitarono ad una cena alla quale sarebbero stati presenti Paolo Stoppa ed Alberto Sordi. Alla fine della piacevolissima serata, scandita dai continui ricordi divertenti dei due grandi attori, tirai fuori dalla giacca una fotografia di un primo piano di Sordi: volevo assolutamente una frase, una dedica che potessi incorniciare sul muro della mia scrivania. Mi portai addirittura il pennarello da casa …. E lui di getto ci scrisse: 'Giudizio, Carlo! Con tutto il mio PATERNO affetto, Alberto.' Quel 'paterno' fu un'illuminazione. Mi fece sorgere la speranza che il progetto accarezzato da Sergio Leone potesse, prima o poi, diventare realtà.

Con l'uscita di Borotalco e il successo che ne conseguì, una sera ricevetti una telefonata di Sergio Leone che mi disse testualmente: ' Nùn prende' impegni pè domani sera. Stàmo a cena cò Sordi!' Pensai subito: 'E' fatta!' E così, nell'immensa villa di Sergio Leone, dopo una cena pesantissima a base di fettuccine al ragù e cotolette alla milanese, fu dato il via al progetto di un padre con un figlio. E Alberto, di getto, trovò subito un titolo: 'In viaggio con papà'. Piacque così tanto che penso fu una delle rare volte che si andava a scrivere una storia basandosi su un semplice titolo.

Con l'ingresso di Rodolfo Sonego, fidato e collaudato sceneggiatore di Sordi, iniziammo le sedute sul soggetto e la sceneggiatura. Speravo tanto di poter vedere, prima o poi, la casa di Sordi ma non c'era verso. La modesta e disordinata abitazione di Sonego diventò il luogo della creazione di quel film al quale lavorammo sodo per molti mesi. Ma una sera, finalmente, capitò che dovessi andare a prendere Alberto perché eravamo stati invitati a cena da Sylva Koscina a Marino. Arrivai puntualissimo ma Alberto non era ancora pronto, così la sorella Aurelia, in un moto di simpatia e fiducia, pensò di farmi vedere la grande villa (che pochi conoscevano) aprendo un'infinità di stanze e salotti. Da quella visita guidata ebbi un'immagine della personalità di Sordi completamente diversa da quella che offriva in pubblico. Il rigore di un arredamento antico, severo, scuro, perfettamente geometrico mi faceva intuire un'altra anima di Alberto Sordi. Un'anima riservata, disciplinata, irrimediabilmente legata al passato e poco propensa al presente. Non ricordo di aver visto un quadro moderno, una scultura astratta o concettuale, un colore che svettasse su gli altri…. Era come se per Alberto la casa fosse una fortezza o un 'museo' di ricordi nella quale trovava quell'irrinunciabile rigore, disciplina e serenità dopo l'incessante bagno di folla.

Sono sempre stato d'accordo con chi descrive il 'vero comico' come un 'vero malinconico', perché ad ogni azione deve pur corrispondere una reazione uguale e contraria. E questa legge di fisica si adatta perfettamente al carattere di certe personalità dello spettacolo, della musica e dell'arte in genere. Sbaglia chi crede che Sordi fosse Sordi anche nella vita privata. Durante le riprese di 'In Viaggio con Papà' oltre agli inevitabili divertimenti sul set e nelle pause, c'erano anche dei momenti in cui questa sua malinconia, questa voglia di riesumare ricordi, questa paura di non riuscire più a capire la realtà attuale, di non ritrovare più certi 'valori' che l'avevano accompagnato nel periodo più prolifico della sua carriera, prendevano il sopravvento. Era un Sordi 'spiazzato' quello che avevo di fronte sulla terrazza dell'hotel a Punta Ala, mezz'ora prima di andare a dormire. Tutte le nostre chiacchierate a fine cena, con una tazza di tisana in mano, vertevano molto su come diventava sempre più difficile star dietro ad un 'costume' che si modificava continuamente. Una sera mi disse: 'Oggi far ridere è veramente un'impresa. E lo sai perché? Perché non c'è più il senso del 'ridicolo'…. Guardati attorno… So tutti mostri! Ma chi ce fà più caso?…'.

Queste considerazioni potevano anche stupire per chi, come lui, era stato il più grande osservatore di 'mostri' nella storia della commedia cinematografica italiana. Ma queste sue insicurezze ed affanni me lo rendevano vero, umano, sincero.

Oggi che non c'è più mi sento molto responsabilizzato nel mio lavoro. Raccontare ed interpretare anche una piccola parte di quello che ha fatto lui è un'impresa quasi impossibile, ma l'esempio che mi ha lasciato nel suo lavoro, nella sua grande disciplina nell'affrontare questa professione così ardua e faticosa è stato immenso. Sordi non ha eredi. Solo spettatori ammirati dalla sua arte sublime. Io sono uno di questi.



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Omaggio a Massimo Troisi

Foto di Angelo Frontoni

Era una sera d'inverno, nebbiosa, di quelle che rendono Torino opaca e misteriosa. Una di quelle serate fatte a posta per infilarti in un cinema o in un teatro. In quell'anno (parlo del '78) a Torino c'era un locale di Teatro-Cabaret in via delle Rosine: si chiamava 'Centralino'. Era un punto di passaggio obbligato per i cosiddetti 'Nuovi Comici', molti dei quali avevano ottenuto una grande popolarità proprio negli studi Rai di Torino con il programma 'Non Stop'. Essendo in predicato anch'io nel diventare 'un nuovo comico', decisi di fare una scappata in quel locale per prendere accordi futuri circa qualche esibizione. Ma era quella una serata speciale, in quanto si esibiva un trio napoletano del quale si cominciava già a parlare molto e bene: La Smorfia. Il teatrino era gremito e a stento riuscii a sedermi su un gradino vicino all'ingresso. Il terzetto era esilarante e calamitava l'attenzione del pubblico con un affiatamento di botta e risposta su scenette di vita quotidiana. Insieme a Lello Arena ed Enzo De Caro svettava il carisma e la sublime gestualità del terzo componente: Massimo Troisi.

Mai avevo visto ed ammirato un attore così padrone non solo della scena, ma dei suoi 'tempi' recitativi: fatti di pause, volute incertezze e geniali 'chiusure di battute'. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo di persona perché quella sua personalità era davvero attraente. Non dovetti attendere molto perché quando furono trasmessi i miei primi sketches in televisione, fu lui a cercarmi per scambiare quattro chiacchiere a cena. Insomma, non faticammo molto a diventare amici.

Ma diventare amico di Troisi non era cosa così semplice: la sua proverbiale pigrizia, la sua personalità affascinante ed autorevole, quello strano vivere dalle tre del pomeriggio alle quattro del mattino in casa, quel magnetismo nel far affascinare qualsiasi donna con la quale veniva in contatto, quel bisogno di circondarsi ogni sera degli amici più fidati ed alleati, mi ponevano sempre nella condizione di dover andare io da lui.

Era ossessionato dalla riservatezza, dalla non contaminazione dei suoi 'tempi lenti', pigri. Portarlo ad un cinema o semplicemente a cena era uno sforzo disumano. Ma quella che poteva apparire indolenza era sicuramente legata ad un senso di precarietà fisica che lui percepiva molto bene. Nessuno di noi ormai faceva più caso a quel rumoroso 'tic tac' che sentivamo sotto la sua camicia: era diventata una consuetudine, addirittura un aspetto della sua personalità. Quel tic tac non regolare, fatto di pause lunghe che ci facevano sbiancare dalla paura. Ma lui ci scherzava sopra, ci rideva addirittura con filosofica rassegnazione. br> Ma se è vero che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, il ritmo lento delle sue giornate, delle sue sceneggiature e delle sue decisioni svaniva d'incanto sulla scena, sul set. I suoi film ce lo consegnano come un macinatore di dialoghi, monologhi. Una straripante vèrve recitativa fatta di parole incessanti, superbe gestualità.

Una volta ricordo di aver avuto il coraggio di dirgli: 'Massimo, ma non riesci ad essere più asciutto nelle battute?… Certe volte sembri nà radio!'. Mi diede l'impressione di averla presa bene. Invece…. nel film a seguire 'Pensavo fosse amore invece era un calesse', andò addirittura oltre! Quant'era testardo. Ma nel 'Postino', il film al quale teneva più d'ogni altro, Massimo (a mio avviso) raggiunse la perfezione assoluta. Complice forse la sofferenza della malattia, raggiunse un equilibrio s traordinario tra il flusso delle sue battute e i 'silenzi'. I silenzi poetici che mai prima aveva affrontato. Sembrava quasi percepire il finale della sua vita… Il Troisi del 'Postino' è un grande, immenso attore. Una maschera indimenticabile, il testamento del più grande di quelli che furono 'i nuovi comici'.


Uno sguardo sul litorale Laziale

Foto del tramonto sul litorale fatto da Carlo Credo che Federico Fellini non sia stato solo un grande regista ma, soprattutto, un acuto psicologo di caratteri, facce, atteggiamenti, esibizioni ed eccessi che popolano costantemente la nostra giornata quotidiana. E forse mai nessuno come lui, uomo dell' Adriatico, ha saputo cogliere l'anima di una regione, il Lazio, così piena di contraddizioni tra sacro e profano, mitologia e cronaca nera, fascino imperiale e 'cagnara' periferica. E non a caso tanti sono stati i film da lui ambientati in quella linea costiera che va da Civitavecchia a Ostia e da Ostia a Sabaudia, passando per Anzio e Nettuno. Perché è indubbio che il litorale laziale sia un grande, immenso 'minestrone' in cui galleggia un'umanità incredibile, varia, promiscua, colorata e chiassosa che non è altro che la vera anima di Roma e delle sue città satelliti.

Quando un romano dice: 'Annàmo ar mare?', lo dice con una luminosità sul viso come se dovesse partire alla conquista di chissà quale terra delle meraviglie. Perché andare al mare, per noi, è un viaggio eccitante e impegnativo (nonostante sia a soli trenta chilometri). Ma una spiegazione c'è: nessuno tiene all'esibizione del proprio corpo, del proprio costume, dell'abbronzatura, degli occhiali da sole e degli asciugamani come noi. La filosofia, in sostanza, è questa: 'O ce vai preciso o è mejo che te ne stai a casa!'. Insomma, la spiaggia come un grande teatro, un grande circo. O anche come 'campo di battaglia'.

E' ancora vivo nei miei ricordi uno dei più grandi 'scempi' avvenuti nel tratto di mare fra Anzio e Nettuno, nel lontano 1970 (un episodio che oggi, fortunatamente, non potrebbe avvenire più). Stanchi di subire i soprusi dei ragazzi di Nettuno che la notte partivano alla 'conquista' di Anzio con mazzafionde, sacchetti di vernice e cerbottane, fu decisa la resa dei conti al tramonto, con l'allestimento di una vera battaglia navale a pomodorate. Decine e decine di pattini, barche e canotti carichi di ' sanmarzano' e pomodori 'fradici' si scontrarono, a circa duecento metri dalla riva, dando luogo ad una delle immagini più cafone che occhio umano abbia mai visto. Dopo appena mezz'ora il mare di Enea era diventato un immenso 'monnezzaio'. E ricordo che ci fu addirittura qualcuno che finì all'ospedale colpito, scorrettamente, non da un pomodoro ma da una raffica di patate.

Il vero disastro fu che la corrente del mare trasportò quel luridume nelle acque di Torre Astura, dove una troupe americana stava girando un film mitologico. Ebbene, le riprese furono sospese con il regista furibondo che minacciava di andarsene maledicendo il giorno in cui era arrivato. Fu una figuraccia per tutti. E in barba alle proteste generali delle due cittadine, i capi di questa invereconda guerra s'incontrarono e finalmente, siglando la pace con un abbraccio, si dissero: 'A' guera è guera! Però se semo divertiti…'.

'A spiaggia' laziale non ha nulla a che vedere con gli altri litorali della penisola. Qui è tutto più 'forte', più eccessivo, più anarchico. Anche le voci si distinguono per il volume… 'A' Francooo… annamose a fa' n' tuffo!'. E l'altro, da una cinquantina di metri: 'Mò arrivo! Famme finì a' sigaretta…'. Ma non c'è solo il tono screanzato della voce a sopprimere il dolce rumore della marina laziale. C'è l'entrata in acqua 'a bomba', dove il rispetto per chi si immerge cautamente a saltelli, con le braccia aperte, se ne va a quel paese. C'è la solita pallata di sabbia sulla schiena dell'amico, che altro non vuol dire se non 'stamo ar mare, divertimose!'. C'è il virtuosismo del palleggio sulla riva e poco importa se il tiro, sbilenco o violento, colpisce un ombrellone o una schiena unta di crema. Tanto, al massimo, il rimprovero che ti giunge è un cupo 'Oooooh…'.

Qui, al mare, tutto è permesso. Si torna bambini, si diventa infantili. Perfino la povera medusa, restituita morta e squagliata sulla riva, viene, per sfregio, trafitta, seviziata, sezionata con la paletta e sotterrata come un essere mostruoso ed incomprensibile. '…Me volevi pizzicà, eh?… Mortacci tua!'.

Ma se devo essere sincero, qualche volta ho la sensazione che qui anche certe 'misure' corporee siano più esagerate rispetto agli altri. O forse è la maniacale ostentazione della propria mascolinità o femminilità che me le fa apparire tali: tanga femminili risucchiati tra natiche possenti e vanitose; 'attributi maschili' in assetto di 'massima allerta'; bicipiti 'palestrati' del tipo 'se me rompi te gonfio'; colli taurini con le solite catene d'oro pesante o col classico dente di pescecane. Seni prorompenti, invadenti, romani, 'felliniani'… Facce marcate, dure, malinconiche, 'pasoliniane'. Sì, il litorale del Lazio è anche questo: bellezze violente e volgarità inconsapevoli che s'inseguono continuamente in un'immagine contraddittoria dove il ritegno, spesso, cessa di esistere.

Come estraniato da quella 'caciara' turbolenta di 'regazzini' che piangono, di madri che urlano, di giovanotti che ridono e giornali che volano, lui, solo lui, mantiene la sua dignità silenziosa e 'felina': il bagnino. E' l'ultimo imperatore di quel pezzo di territorio autenticamente romano. Annoiato, tatuato, marcato dalle rughe solari, con un occhio guarda il mare e con l'altro il sedere di una 'mora'. A lui tutto si chiede, e da lui tutto si ottiene, con quel suo pigro cenno della testa.

Ma se Fellini e Flaviano seppero cogliere con ironia e anche poesia i colori, le voci, gli atteggiamenti, le tipologie di una moltitudine in viaggio per 'la spiaggia promessa', Moravia, al contrario, riuscì a scoprire un aspetto del litorale laziale sconosciuto, per molti anni, alle invasioni di massa: la grande spiaggia di Sabaudia.

L'introversa letteratura di Moravia (che amava ritirarsi in una villa sul litorale per scrivere), riflette sicuramente i colori inquieti di questo luogo, dove l'austerità del lago si contrappone ad una enorme lingua di sabbia abbagliante. Non ci sono mezze tonalità cromatiche a Sabaudia: le luci e le ombre sono forti, contrapposte, nette. Ho sempre pensato che se potesse esistere un luogo dove ancora si percepiscono spiriti e fantasmi del passato questo non può che essere a Sabaudia. Sì, perché Sabaudia rimanda nei suoi scorci a storia e mitologia. Atmosfere esoteriche e lontane cronache di un regime, convivono in simulacri marmorei, gelidi, autoritari. O nella scultura delle cime del Monte Circeo, affascinante, maestoso e sinistro. Qui la 'sacralità' mitologica della dimora della maga Circe viene 'profanata' dalla sagoma severa del Duce che, inquietante, sembra apparire nell'andamento dei rilievi della montagna.

Con l'arrivo delle prime nuvole di fine estate, l'arenile abbagliante s'incupisce fino ad assumere non i colori malinconici dell'Adriatico, ma quelli cupi di un mare scuro ed inquieto.

Ecco la solitudine di una spiaggia che restituisce miti, poeti, romanzi, e… piccole storie mondane vissute per una sola estate.



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Ricordo dei Beatles a Roma

C'è una cosa che amo fare spesso: tornare nella mia casa paterna quando non c'è nessuno.Mi piace aprire le porte delle stanze, ricordare com'erano quando noi fratelli abitavamo là. Sentire quell'odore inconfondibile di libri, tappeti e poltrone, sempre nello stesso posto, percorrere lentamente il lungo corridoio dove la solita mattonella, poco aderente, da più di cinquant'anni fa un leggero rumore di assestamento mentre ci cammini sopra. Questa 'voce' e quegli odori mi illudono e mi rassicurano che il tempo lo posso sempre fermare nella casa dove ho trascorso trent'anni della mia vita.Sembra tutto immobile.Mi piace molto aprire i cassetti e ritrovare la penna del liceo,una lettera di raccomandazioni di mia madre,la foto in bianco e nero della prima fidanzata,noi fratelli in posa sotto l'albero di natale,una medicina scaduta,la chiave del mio primo motorino.

Ma pochi mesi fa', nell'aprire un cassetto al quale non avevo mai dato importanza,trovai l'oggetto più prezioso della mia adolescenza,quello che testimoniava il più bel periodo della mia vita:un grosso album di ritagli di articoli e foto.Il titolo era stato scritto da me a penna :The Beatles.

Una raccolta impressionante di foto di John,Paul,George e Ringo accompagnate da titoli fatti da me: 'I più grandi del mondo', 'Lennon immenso', 'Le quattro meraviglie dell'universo'etc… Ma in una delle ultime pagine avevo scritto un titolo (che accompagnava una loro foto durante un concerto) che aveva un enorme significato e testimoniava qualcosa di molto profondo e anche spirituale: 'Accompagnate i momenti più belli della mia vita'. In quella frase c'era tutto lo spirito degli anni sessanta: felicità,risate,amici,ascoltare musica,fare musica. Ma soprattutto emozionarsi ad un brano che ti accompagnava per tanto,tanto tempo scandendo un'epoca colorata,allegra nella quale eri sempre innamorato. Ricordo che facevo a gara con la mia fidanzata quindicenne per superarla nell'allestimento di questi immensi album.Ma lei era più brava,perché il papà andava spesso a Londra e in America e le portava riviste pop introvabili.

Il suo album era certamente più prezioso del mio. Ma un giorno il mio di papà tornò da New York con una chicca che la stese secca senza parole: il manifesto originale del famoso concerto dei Beatles allo Shea Stadium di New York del 66. E, per farmi felice, ci fece aggiungere in stampa 'With Carlo Verdone In Person'. Ricordo che ci fu un'autentica processione di amici e compagni di scuola per ammirare il cimelio dei cimeli.Fui molto grato a mio padre per quel pensiero.Francamente non mi aspettavo da lui,professore serio e spesso severo,una simpatia per quei quattro. Ma mio padre andò oltre le mie attese, nonostante la mia bocciatura in quarta ginnasio con relativo blocco della paghetta e sequestro della batteria, con la quale suonavo con un gruppo.Mi chiamò nel suo studio per dirmi testualmente:'… Ho preso due biglietti per il concerto serale dei Beatles qui a Roma.Ci andremo insieme.E' un avvenimento storico molto importante,va visto.' Quella comunicazione mi sbalordì.

Mio padre era giovane! Solo 'un grande' poteva dire quella frase…. E le sue quotazioni, nonostante le sberle per la bocciatura,salirono enormemente. Vedere dal vivo quello che stavo incollando su un album ed ascoltando su un Philips ancora 'mono',era la più grande emozione della mia vita.

Ben presto nacque un problema: come andarci vestito? Molti miei amici si stavano facendo crescere i capelli sopra le orecchie,altri avevano comprato i famosi stivaletti con la zip e il tacco lungo usati soprattutto da Lennon, altri optavano per una camicia a fiori, indossata spesso da Harrison. La mia ragazza,che aveva trovato con la sorella i biglietti per il pomeriggio,decise di mettersi una minigonna esagerata e di preparare un cartello con scritto.'PAUL I LOVE YOU!' Io mi incazzai molto perché le mutande stavano a dieci centimetri dall'orlo ed ero molto geloso.

Nel frattempo continuavo, in fibrillazione, ad incollare foto e ritagli dei Beatles e su un articolo lessi: 'I Beatles a Roma suoneranno per 40 minuti. Un milione al minuto il loro compenso.' 'Morté…' dissi. Io all'epoca con il mio gruppo, 'The Sound's Players', prendevo al massimo ventimilalire per due ore. Il 28 giugno arrivò in fretta. Con mio padre decidemmo di non prendere la macchina per il gran caos ed arrivammo davanti all'Adriano, in Piazza Cavour,sudati fradici. Davanti ai nostri occhi un'immagine da colpo di stato: un centinaio di celerini con casco e manganello presidiavano l'intera area. Quattro automezzi idranti per disperdere la folla erano disposti strategicamente. Due ambulanze erano pronte con il segnalatore acceso e notammo perfino (ma che cavolo ci entrava…) un cappellano militare! In poche parole per quella Roma democristiana l'evento doveva apparire come qualcosa tra l'insurrezionale e l'isteria di massa. Non era un caso che in quell'epoca i 'capelloni' venivano spesso circondati e riempiti di botte dai celerini solo perché sostavano su una piazza o su una scalinata.

A spintoni entrammo nel teatro. E mio padre,per una gomitata,perse subito gli occhiali.Rischiava di vedere il nulla per il suo astigmatismo. Ma alla fine ,tra centinaia di scarpe, glieli trovai con una stanghetta rotta.Prendemmo posto su un ottimo palchetto,avrebbero suonato sotto di noi. La platea era un immenso minestrone dove c'era di tutto:borghesi con figli,gruppi di capelloni indecenti, pariolini con i capelli lisci massimo fino alle orecchie, intellettuali con gli occhiali alla Pasolini. Improvvisamente intravedo Anna Magnani col figlio Luca. Guarda schifata quella massa urlante. Poi papà mi fa notare Rossella Falk che trova il posto occupato da una scalmanata che le fa il gesto di andarsene a trovare un altro. Le luci si abbassano di colpo e un urlo unico, infernale,si leva nel teatro. Esce il presentatore, Lucio Flauto.Una bordata di fischi ed urla coprono quello che doveva essere il programma della serata. La sua presentazione dura troppo e quello del palco accanto gli urla:' Ma parti cò a musica! Che ce fai nà conferenza?!!'.

Fausto Leali,Peppino di Capri,i New Dada ed altri hanno l'arduo compito di aprire il concerto. Non si capisce una nota tale è il volume delle urla. Mio padre si mette paura e comincia a guardare l'orologio. Non fa altro che ripetere 'Madonna,ragazzi!'.Dalla platea cominciano i primi attacchi isterici e un ragazzo e una ragazza vengono portati via di peso dagli infermieri delle ambulanze come due indemoniati. Un panino colpisce in pieno volto un pompiere che guarda da dietro le quinte. Il pubblico vuole solo i Beatles e comincia ad urlare 'Fuori! Fuori! Fuori!'. Si ha la sensazione che i gruppi prima dei Beatles si sbrighino per andarsene il prima possibile. Riappare Lucio Flauto per annunciare la fine del primo tempo e che il secondo vedrà finalmente i Beatles. L'ennesimo panino dalla platea non lo prende per un soffio.

I venti minuti che precedono la loro esibizione sono incandescenti:nessuno riesce a star fermo col corpo, tutti fumano,tutti sudano. Ma all'ingresso di un tecnico che porta sul palco la cassa della batteria di Ringo Starr con la scritta The Beatles, scoppia un urlo assordante. Nel giro di pochi minuti il palco è pronto, gli amplificatori Vox accesi, le chitarre sistemate. Entrano accompagnati da un boato e attaccano subito una scatenata 'Twist and Shout'. La massa epilettica dell'Adriano contrasta con un'eleganza, uno stile ed un' autorevolezza che mai gruppo rock al mondo ha più avuto. In un completo nero, camicia bianca, cravatta nera e stivaletti, vediamo ed ascoltiamo l'inizio di una nuova èra non solo musicale ma soprattutto di costume. Lennon ha un berretto nero, di vaga memoria bolscevica, che lo rende ancora più 'grande'.

Seguono a raffica 'I'm a loser'(con Lennon all'armonica), 'A hard day's night', 'Ticket To Ride', 'I Feel Fine'…Se Mc Cartney e Lennon sorridono e si divertono, George Harrison se ne sta disciplinatamente concentrato e serio. Un po' come Ringo Starr che non perde un colpo ed è l'unico a muovere la testa ritmicamente facendoci ricordare che 'la zazzera' l'hanno inventata loro. Piano piano le grida e i pianti isterici rischiano di sommergere i brani che fatichiamo a riconoscere. Ma ecco, improvvisamente, gli accordi di una canzone per noi nuova, meravigliosa, potente 'She's a woman'. E' il delirio più totale. Un cretino dietro di me urla:'Io che l'ho!!!'. 'Ma che cazzo c'hai se la stanno a fa' a adesso…'gli risponde un capellone grasso. Ormai siamo tutti in piedi, saltiamo, battiamo con le mani il ritmo.

Mio padre prende appunti su un taccuino per un articolo ma riceve una gomitata ogni due secondi e alla fine non si leggerà un cavolo di quello che ha scritto. Durante quello che doveva essere l'ultimo brano (che non ricordo), un pazzo scatta dalla sedia e monta sul palco. Si avventa verso Lennon e gli frega il berretto. Quattro della sicurezza lo bloccano e lo gonfiano di botte portandolo dietro le quinte. E'la fine! I Beatles, terrorizzati, buttano gli strumenti sul palco e scompaiono per sempre. Il ciccione dietro di me commenta lapidario:'Aho',do' te volti e te giri c'è sempre no' stronzo…'. Finiva così bruscamente, dopo quaranta minuti 'l'evento degli eventi'. Era il primo concerto rock che vedevo e dentro di me sapevo che ne avrei visti altri cinquecento. Era solo l'inizio di un'epoca: piena di note, di colori ,d'ispirazioni, di creatività, di amori nati per una canzone, di provocazioni, di illusioni…Erano i nostri anni 60'.